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"Non mi toccare": Anna Ill e il corpo come misura

Gennaio 2022

 

Cinque imponenti finestre caratterizzano il prospetto del Castello di Squillace. Costruite dalla famiglia Borgia sulle macerie della fortezza federiciana che le sostiene, furono l’inizio di un processo di ricostruzione ed espansione del palazzo mai completato. Rivolte a meridione e occidente, queste grandi cornici rettangolari sono inaccessibili e danno sul cielo da entrambi i lati. Fatte più d’aria che di granito, non fanno mistero della fragilità di un luogo che fu fortezza e ora è rovina. Il lavoro di Anna Ill – artista catalana selezionata per l’edizione 2021 della residenza In-ruins – esplora le nozioni di tempo, identità e corpo combinando sculture con oggetti trovati, tessuti, video e fotografie. Idee di intimità ed estimità (cfr. Lacan) guidano la sua analisi di confini sociali e individuali che definiscono gli “esterni” e gli “interni” delle nostre vite. Assenza e presenza sono due forme parimenti importanti della sua estetica, che prende le mosse dalla tangibilità del corpo (femminile) e dal suo implicito desiderio di espansione. A Squillace, confrontandosi con l’impossibilità di lavorare a diretto contatto con le finestre del Castello, ha utilizzato la misura del proprio corpo per calcolarne le dimensioni. Un software le ha permesso di moltiplicare la sua altezza e definire digitalmente i rapporti con l’edificio. Inizialmente tentata dal realizzare un negativo tessile delle monumentali aperture, l’artista ha poi deciso di cucire abiti della propria taglia e “restituirli” al sito che avevano consentito di misurare. L’installazione presentata al termine della residenza si intitola Noli me tangere [Non mi toccare], come recita da secoli l’antico emblema di un palazzo nobiliare della città. Sparsi tra la pietra fortificata, i tessuti ne prendono la forma. Tra rocce e spigoli, il corpo femminile non è assente ma riassunto dall’intimità del peso dei suoi indumenti. Ho chiesto ad Anna Ill di condividere alcuni pensieri su questa sua prima esperienza in Calabria. Le sue riflessioni sono accompagnate da un estratto del saggio fotografico Noli me tangere, che rivela alcune delle note e le immagini raccolte dall’artista nel corso della residenza.

Anna Ill: la partecipazione a In-ruins è coincisa con la mia prima volta nel sud Italia. Sono originaria di una piccola città della costa catalana, quindi mi è sembrato di rivedere le mie radici, la mia città natale, il luogo che ho lasciato anni fa. Questo mi ha fatto capire quanta nostalgia di casa abbia e che, probabilmente, l’avrò sempre. È stata un’esperienza straordinaria, una sensazione molteplice che unisce l’atmosfera da vacanza estiva con il duro lavoro. A Squillace ho subito sentito la familiarità del paese. È stato bello far parte di qualcosa di così intimo e unico. Era uno scenario così diverso da quello di Londra.

Ho vissuto a Londra negli ultimi 6 anni, dentro e fuori, avendo spesso occasione di lasciare la città seguendo progetti artistici all’estero. Ho una mia strategia per coniugare le mie origini a una città così grande. Penso alla città come al mio seminterrato, al mio rifugio personale e alla stanza in cui creo. Mi piace sentirmi anonima nell’immensità della città. Sentirmi piccola e insignificante porta valore a tutti i miei pensieri, le mie idee e le mie opere d’arte. È come una modalità di sopravvivenza attiva. Mi piace essere straniera, mi permette di essere più consapevole del mio presente e di concentrarmi su me stessa e sulla mia pratica.

Trovo importante mettere in dialogo le mie opere con il luogo dove sono state concepite e prodotte. Nei miei progetti, gli oggetti trovati sono spesso il punto di partenza da cui si snoda un racconto. Ogni materiale ha, per me, significato in quanto legato non soltanto alla propria memoria ma all’incontro, al movimento nel tempo e nello spazio, così riportando elementi del passato nel presente. Per questo è un’occasione particolare quella di lavorare in luoghi la cui storia è immediata fonte di ispirazione.

Per In-ruins, la mia idea iniziale era quella di creare un tessuto della stessa dimensione delle finestre del Castello. Volevo che il tessuto rappresentasse una “porta” [“door” in inglese], che deriva dalla radice proto-indoeuropea “dhwer” e designa sia l’ingresso che il confine, separando ciò che è dentro da ciò che è fuori. Un simbolo sia della connessione che della separazione del mondo dall’altro. Questa dicotomia, vista dall’interno, può suggerire uno spazio intimo, di rifugio. Per ottenere la misura esatta del prospetto serviva però parecchio tempo e, comunque, non sarebbe stato possibile entrare in diretto contatto con le pareti del bene archeologico per installare quelle che sarebbero apparse come enormi tende.

Non ho aspettato e deciso di usare me stessa come unità di misura. Con questo gesto ho avvicinato il mio corpo al sito storico, entrando in qualche modo a farne parte nel tentativo di “riportare in vita” quelle rovine. L’opera ha quindi preso la forma di sette abiti collocate strategicamente tra quel che resta delle antiche stanze del Castello. Ai resti di una fortificazione del castello ho sovrapposto la delicatezza della memoria sconosciuta di un corpo femminile, per enfatizzare l’intangibilità di entrambi. Più giù, in città, un grande tessuto composto da duplicati degli abiti cuciti insieme e delle stesse dimensioni di una finestra è stato dislocato e installato nel palazzo il cui emblema ha dato il titolo a questo progetto.

Ho un ricordo particolarmente bello del viaggio in Italia. E di Squillace. Di quando mi hanno dato le chiavi del Castello così da potervi accedere la mattina presto per fare delle foto. C’era l’alba e io ero lì da sola, seduta. Mi guardavo intorno attenta a percepire quanto più possibile di quel che mi circondava. Mi sono sentita legata al luogo, alla sua natura. Un momento di pace in un luogo costruito per la difesa e per la guerra. Conserverò sempre quel momento nella mia mente.

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